Crisi finanziaria
È possibile (e auspicabile) che le ultime misure adottate dal governo americano
riescano a bloccare la deriva autodistruttiva del sistema finanziario evitando
il fallimento delle banche d'affari superstiti e l'estensione del contagio ad
altri segmenti del mercato a partire dagli Hedge Funds e dalle compagnie di
assicurazione. Tuttavia, anche se l'epicentro è in America, non è chiaro se
l'intervento sarà sufficiente a risolvere gli effetti sistemici della crisi
attuale; da questo punto di vista il coinvolgimento nell'intervento di banche
di altri paesi è sicuramente positivo. Le misure adottate, nella loro
eccezionalità, erano necessarie per cercare di circoscrivere, per quanto
possibile, la crisi al settore finanziario dell'economia globale, limitandone
al massimo le conseguenze sull'economia reale che avrebbero potuto provocare,
con successivi effetti a catena una recessione internazionale molto seria. E da
questo punto di vista opportuno sarebbe sostenere anche la domanda dei consumi
delle famiglie americane colpite dalla crisi dei mutui che hanno visto crollare
non solo la loro ricchezza ma anche le loro possibilità di consumo. Data la
situazione, le polemiche sulle colpe, le responsabilità, ecc., appaiono
abbastanza inutili: nei due decenni passati l'egemonia culturale del
neoliberismo è stata evidente; tuttavia da molto tempo gli osservatori più
attenti ponevano l'accento sui rischi che l'eccesso di liquidità e la creazione
di un vero e proprio sistema bancario parallelo, fortemente indebitato a breve
e con impieghi a lungo termine, non regolamentato e privo dei requisiti di
capitale necessari poneva alla stabilità del sistema che si espandeva secondo
una logica piramidale che poteva crollare improvvisamente.
Dalla crisi attuale prima o poi
si uscirà; vedremo con quali costi finali, ma è chiaro che un'intera epoca
della storia del capitalismo si è malamente conclusa: un periodo lungo che ha
inizio con i processi di regolamentazione e liberalizzazione dei decenni
passati, basati a loro volta sulla fiducia e sulla convinzione della capacità
dei mercati di autocorregersi e autoregolarsi. Non va dimenticato comunque che
i decenni passati hanno anche dato al mondo periodi di crescita molto
sostenuta, il coinvolgimento nell'economia mondiale di nuovo attori, l'uscita
dalla povertà di centinaia di milioni di persone. Non è la globalizzazione o
l'apertura dei mercati ad essere fallita, bensì la sua interpretazione in chiave
prevalentemente finanziaria, la mancanza di una governance globale,
l'autorefenzialità degli attori, l'avidità e l'arricchimento sfrenato dei
managers, la superficialità delle elites politiche (anche di sinistra) alcune
delle quali (in Italia) ancora pochi mesi fa celebravano inconsapevolmente i
fasti di un liberismo post mortem.
Un'epoca è finita, ma non sappiamo cosa ci riserverà il futuro. E il
futuro è nelle mani della politica. Il prestigio degli Stati Uniti, potenza
leader del mondo, esce piuttosto scosso da questa vicenda: incapacità di
prevedere la crisi e successivamente di comprenderne la portata, interventi
tardivi, parziali e inefficaci, nazionalizzazioni "contro natura", salvataggi
selettivi, disavanzo pubblico alle stelle, debito pubblico che dopo il
salvataggio di Fannie e Freddy ha raggiunto se non superato quello italiano.
Per non parlare del panorama internazionale. In tale situazione è difficile che
gli Stati Uniti possano trovare consenso su soluzioni unilaterali alla crisi
attuale. La risposta razionale dovrebbe infatti essere trovata in una governace
multilaterale dell'economia mondiale, e in una riforma delle istituzioni
finanziarie internazionali e dello stesso sistema monetario internazionale: lo
richiedono i nuovi equilibri economici e politici che si sono andati delineando
nel resto del mondo, gli Stati Uniti rimangono la potenza leader ma forse non
sono più la potenza egemone. Dal canto suo l'Europa ha rivendicato il fatto di
non essere stata coinvolta in maniera altrettanto grave dalla crisi in atto. In
effetti ciò è in parte vero, ma va anche detto che se non si partecipa al gioco
è difficile farsi male giocando. L'Europa svolge da anni un ruolo difensivo
prudente e conservatore, e nella situazione attuale non è in grado di proporre
soluzioni o prospettive nuove. Lo sviluppo, peraltro piuttosto lento, dei suoi
principali paesi (è pressochè inesistente in Italia) ha continuato a basarsi
sul meccanismo "export-led", non esiste un bilancio federale che possa
compensare shocks esterni imprevisti, non esiste una missione condivisa, una
comune visione del mondo e delle sorti comuni, la politica monetaria della Bce,
in mancanza di una guida politica effettiva, è rigida, attendista, e
scolastica. L'Europa è oggi essenzialmente una zona di libero scambio che
esprime non tanto gli interessi europei ma quelli degli Stati Uniti e del Regno
Unito. L'Europa dovrebbe essere un'altra cosa, un soggetto politico attivo. Ciò
pone il problema di una evoluzione seria che potrebbe comportare anche la
revisione dei trattati e un impegno ad una integrazione molto più rapida e
convinta da parte dei principali Paesi. Il rischio principale tuttavia è che
nell'incertezza sul futuro, nell'inevitabile conflitto ideologico-culturale tra
liberisti ad oltranza e neoregolamentatori (statalisti?) nella delusione per il
progetto europeo incompiuto, finiscano per prevalere le istanze di chiusure
protezionistiche e provinciali che si nutrono di paura e di localismo, ben
presenti a livello politico nazionale e internazionale. In questo caso
l'arresto dello sviluppo sarebbe inevitabile e una recessione mondiale molto
seria non improbabile.
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