Rischio protezionismo PDF Stampa E-mail
di Vincenzo Visco (L'Unità)   
martedì 23 settembre 2008
Crisi finanziaria

È possibile (e auspicabile) che le ultime misure adottate dal governo americano riescano a bloccare la deriva autodistruttiva del sistema finanziario evitando il fallimento delle banche d'affari superstiti e l'estensione del contagio ad altri segmenti del mercato a partire dagli Hedge Funds e dalle compagnie di assicurazione. Tuttavia, anche se l'epicentro è in America, non è chiaro se l'intervento sarà sufficiente a risolvere gli effetti sistemici della crisi attuale; da questo punto di vista il coinvolgimento nell'intervento di banche di altri paesi è sicuramente positivo. Le misure adottate, nella loro eccezionalità, erano necessarie per cercare di circoscrivere, per quanto possibile, la crisi al settore finanziario dell'economia globale, limitandone al massimo le conseguenze sull'economia reale che avrebbero potuto provocare, con successivi effetti a catena una recessione internazionale molto seria. E da questo punto di vista opportuno sarebbe sostenere anche la domanda dei consumi delle famiglie americane colpite dalla crisi dei mutui che hanno visto crollare non solo la loro ricchezza ma anche le loro possibilità di consumo. Data la situazione, le polemiche sulle colpe, le responsabilità, ecc., appaiono abbastanza inutili: nei due decenni passati l'egemonia culturale del neoliberismo è stata evidente; tuttavia da molto tempo gli osservatori più attenti ponevano l'accento sui rischi che l'eccesso di liquidità e la creazione di un vero e proprio sistema bancario parallelo, fortemente indebitato a breve e con impieghi a lungo termine, non regolamentato e privo dei requisiti di capitale necessari poneva alla stabilità del sistema che si espandeva secondo una logica piramidale che poteva crollare improvvisamente.

Dalla crisi attuale prima o poi si uscirà; vedremo con quali costi finali, ma è chiaro che un'intera epoca della storia del capitalismo si è malamente conclusa: un periodo lungo che ha inizio con i processi di regolamentazione e liberalizzazione dei decenni passati, basati a loro volta sulla fiducia e sulla convinzione della capacità dei mercati di autocorregersi e autoregolarsi. Non va dimenticato comunque che i decenni passati hanno anche dato al mondo periodi di crescita molto sostenuta, il coinvolgimento nell'economia mondiale di nuovo attori, l'uscita dalla povertà di centinaia di milioni di persone. Non è la globalizzazione o l'apertura dei mercati ad essere fallita, bensì la sua interpretazione in chiave prevalentemente finanziaria, la mancanza di una governance globale, l'autorefenzialità degli attori, l'avidità e l'arricchimento sfrenato dei managers, la superficialità delle elites politiche (anche di sinistra) alcune delle quali (in Italia) ancora pochi mesi fa celebravano inconsapevolmente i fasti di un liberismo post mortem.  Un'epoca è finita, ma non sappiamo cosa ci riserverà il futuro. E il futuro è nelle mani della politica. Il prestigio degli Stati Uniti, potenza leader del mondo, esce piuttosto scosso da questa vicenda: incapacità di prevedere la crisi e successivamente di comprenderne la portata, interventi tardivi, parziali e inefficaci, nazionalizzazioni "contro natura", salvataggi selettivi, disavanzo pubblico alle stelle, debito pubblico che dopo il salvataggio di Fannie e Freddy ha raggiunto se non superato quello italiano. Per non parlare del panorama internazionale. In tale situazione è difficile che gli Stati Uniti possano trovare consenso su soluzioni unilaterali alla crisi attuale. La risposta razionale dovrebbe infatti essere trovata in una governace multilaterale dell'economia mondiale, e in una riforma delle istituzioni finanziarie internazionali e dello stesso sistema monetario internazionale: lo richiedono i nuovi equilibri economici e politici che si sono andati delineando nel resto del mondo, gli Stati Uniti rimangono la potenza leader ma forse non sono più la potenza egemone. Dal canto suo l'Europa ha rivendicato il fatto di non essere stata coinvolta in maniera altrettanto grave dalla crisi in atto. In effetti ciò è in parte vero, ma va anche detto che se non si partecipa al gioco è difficile farsi male giocando. L'Europa svolge da anni un ruolo difensivo prudente e conservatore, e nella situazione attuale non è in grado di proporre soluzioni o prospettive nuove. Lo sviluppo, peraltro piuttosto lento, dei suoi principali paesi (è pressochè inesistente in Italia) ha continuato a basarsi sul meccanismo "export-led", non esiste un bilancio federale che possa compensare shocks esterni imprevisti, non esiste una missione condivisa, una comune visione del mondo e delle sorti comuni, la politica monetaria della Bce, in mancanza di una guida politica effettiva, è rigida, attendista, e scolastica. L'Europa è oggi essenzialmente una zona di libero scambio che esprime non tanto gli interessi europei ma quelli degli Stati Uniti e del Regno Unito. L'Europa dovrebbe essere un'altra cosa, un soggetto politico attivo. Ciò pone il problema di una evoluzione seria che potrebbe comportare anche la revisione dei trattati e un impegno ad una integrazione molto più rapida e convinta da parte dei principali Paesi. Il rischio principale tuttavia è che nell'incertezza sul futuro, nell'inevitabile conflitto ideologico-culturale tra liberisti ad oltranza e neoregolamentatori (statalisti?) nella delusione per il progetto europeo incompiuto, finiscano per prevalere le istanze di chiusure protezionistiche e provinciali che si nutrono di paura e di localismo, ben presenti a livello politico nazionale e internazionale. In questo caso l'arresto dello sviluppo sarebbe inevitabile e una recessione mondiale molto seria non improbabile.

 
 
 

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